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Venerdì 26 aprile 2024

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Vivere oggi a Parigi e a Bruxelles

Caro Direttore, a due settimane dagli attentati in Belgio, come va tra Parigi e Bruxelles? Così così. Quando la metro si ferma improvvisamente il cuore sale in gola. Quando senti un rumore strano ti giri inquieto. Quando uno dei vari personaggi eccentrici che popolano la vita delle nostre città urla qualcosa per strada non lo guardi più con distratta pietà ma con paura. La vita continua però.
 Ma va a momenti. Prima è stata la paura, poi è subentrato l’orgoglio (“non vinceranno, siamo più forti noi”). Poi con i primi dettagli e le prime storie e corpi straziati che non riescono a ritrovare un nome, il morale è di nuovo sceso. Poi la rassegnazione. Da agosto scorso, con il fallito attacco nel treno tra le due città, ogni tre o quattro mesi il terrore è stato sulle strade di Parigi e Bruxelles: il treno, i nostri bar e ristoranti, i nostri aeroporti e metro. Due città vicine, unite da un treno ogni mezzora, tra cui molte famiglie si dividono per lavoro, senza un confine fisico a separarle. Simbolo di quell’Europa che nonostante crisi e difficoltà esiste già nella realtà di tutti i giorni. E ora unite dal terrore che nasce nelle rispettive periferie.
 In precedenza erano stati colpiti dei simboli: la scuola ebraica a Tolosa, il museo ebraico a Bruxelles, Charlie Hebdo, l’Hyper Cacher. Erano attaccati i nostri valori, la nostra “civiltà” ma non noi singoli individui direttamente. E infatti, il 7 gennaio 2015, subito dopo la strage del giornale satirico, eravamo decine di migliaia a Place de Republique. I terroristi erano ancora in fuga, e il giorno dopo e quello dopo ancora avrebbe colpito ancora, ma non c’era paura. Je suis Charlie. Je suis Hyper Cacher. Je suis juif. Erano attacchi infami che avevano coinvolto bambini, giornalisti, disegnatori, turisti e cittadini normali, persone assolutamente incolpevoli ma vittime di un attacco delirante a simboli ben precisi. Dopo il 13 novembre invece è stato più difficile. Quattro mesi dopo la botta ancora più dura. Abbiamo capito che gli obiettivi siamo tutti noi a prescindere da simboli, credenze, origini. E ci siamo trovati più soli. Per ragioni di sicurezza o paura non siamo più scesi in piazza in massa. Tanto non avrebbe avuto molto senso dire e dirsi “je suis moi meme”. Una frase simile più che farti forza, ti fa sentire ancora più piccolo e impotente.
 Eppure, nonostante tutto questo, Bruxelles, come già Parigi a novembre, nei giorni subito dopo l’attacco era una città stordita ma "calda". Le persone si scambiavano sorrisi, i conoscenti che in un giorno normale sarebbero corsi ai rispettivi appuntamenti si salutavano calorosamente. A due settimane rimangono ancora un sacco di problemi pratici tra trasporti a rilento e controlli di polizia, ma tutto superato con un surplus di gentilezza, cooperazione, flessibilità. Nelle code ai controlli le persone si aiutano, non si spingono. La peggiore bestialità tira fuori la migliore umanità.Dopo aver sepolto i morti, la sfida più grande è “riparare i viventi”, “riparare” chi è rimasto. Ripartiamo da questa umanità.Andrea Garnero e Valentina Montalto (Andrea e Valentina vivono, rispettivamente, a Parigi e a Bruxelles)

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