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Giovedì 25 aprile 2024

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Referendum: credere nella possibilità di cambiare

La Guida - Referendum: credere nella possibilità di cambiare

Vado a votare da quarant’anni. A volte convinto, altre turandomi il naso. Come tutti. Voterò anche domenica 4 dicembre al referendum sulla riforma costituzionale. Nel pieno rispetto per chi sceglierà il No, voterò Sì. Sono giunto alla decisione dopo aver seguito una serie di dibattiti tra sostenitori del Sì e del No, valutato le ragioni degli uni e degli altri. Dopo aver letto, non senza fatica, tutto il testo “riformato”. Cercando di non farmi condizionare dalle posizioni politiche. Detto altrimenti: mi importa poco il futuro di Renzi, mi importa molto il futuro dell’Italia. E ho scelto di credere ancora nella possibilità di cambiare. In meglio. Di questa riforma non mi piace tutto. Non la vedo come soluzione ai mali dell’Italia, ma non riscontro nemmeno rischi di minor democrazia come paventano alcuni. La riforma mi sembra più semplicemente un passo in avanti nella giusta direzione. Se l’obiettivo è quello di accompagnare e sostenere il cambiamento recente e futuro della società civile che tutti, fino a prima del referendum, dicevano necessario e indispensabile. Così come è oggi il “sistema” non risponde più alle esigenze della società, totalmente diversa da quella di settanta o anche solo dieci anni fa. Il referendum è una buona occasione, non l’unica ma certo la più significativa, per dare avvio ad un processo di cambiamento necessario per tentare di disincagliare l’Italia dalla paralisi in cui è bloccata. Successivamente occorrerà poi perfezionare i passaggi che si rivelassero inadeguati alla prova dei fatti, ma se non si avvia la macchina ora è difficile immaginare quando avremo un’altra possibilità. Questo senza toccare dei principi fondamentali della Costituzione che mantiene inalterato il suo valore di riferimento. Tra le tante modifiche introdotte, tre mi sembrano importanti e sottoscrivibili. La prima: l’abolizione del bicameralismo perfetto. Significa che una sola camera, quella dei deputati, sarà chiamata a dare (o a togliere) la fiducia al governo. Non potrà più accadere che due maggioranze diverse alla Camera e al Senato, rendano impossibile formare un governo, come accaduto a Bersani dopo le elezioni politiche del 2013. Né che una manciata di parlamentari insoddisfatti possa mandare a casa un governo spostando pochi voti in una delle due camere. Come fece Bertinotti al primo governo Prodi – 1996-1998 – o come accadde allo stesso governo Berlusconi. L’attribuzione del voto di fiducia alla sola Camera dei deputati, se accompagnata da una legge elettorale che assicuri la formazione di una maggioranza senza mortificare la rappresentanza democratica, permette ai cittadini di attribuire in modo chiaro a una classe politica il compito di guidare il Paese e quindi chiedere conto della sua responsabilità se viene meno al compito affidato. Mentre il nuovo Senato, ridotto a 100 componenti (non stipendiati), può diventare il luogo di confronto e mediazione tra interessi nazionali e regionali, mantenendo competenza e diritto di voto su alcune materie fondamentali (come quelle costituzionali). La seconda: la modifica sostanziale del “Titolo V”. Si tratta degli articoli che stabiliscono le rispettive competenze e poteri di Stato e Regioni. Le nuove disposizioni stabiliscono “chi deve fare che cosa”, semplificano e chiariscono meglio responsabilità e procedure, in particolare quelle legislative e nei rapporti tra Stato e Regioni. Riportano allo Stato la competenza esclusiva su alcune materie oggi contese (e motivo di liti a non finire) come la sanità, e introducono, fra le altre cose, controlli e vincoli di bilancio alle Regioni e agli enti locali. Una scelta quanto mai opportuna di fronte al disastro finanziario registrato dalle Regioni negli ultimi anni (si pensi alla catena di scandali e spese pazze). La terza: la modifica dell’istituto referendario. Per il referendum abrogativo viene di fatto abbassata la percentuale di partecipanti al voto perché risulti valido (cosa che con la percentuale del 50%+1 degli aventi diritto al voto richiesta oggi accade molto raramente). Viene poi introdotto il referendum propositivo, oggi non previsto. Una forma di democrazia diretta attraverso la quale i cittadini possono avanzare proposte di legge che il parlamento dovrà obbligatoriamente prendere in esame. Dal punto di vista politico, mi colpiscono e mi interrogano alcune situazioni che sono venute a crearsi nella battaglia referendaria. La prima è la “retromarcia” di chi ha approvato la riforma in parlamento e oggi fa campagna per il No. Pierluigi Bersani in particolare. È stato lui la più illustre vittima del bicameralismo perfetto, quando, nel 2013, ottenuta la maggioranza alla Camera ma non al Senato, dopo aver tentato inutilmente di avere l’appoggio dei 5Stelle, ha dovuto gettare la spugna. Aprendo la strada al governo Letta. A distanza di quattro anni, l’uomo che voleva porre fine all’era Berlusconi e a cui i grillini hanno negato ogni tipo di alleanza, oggi è schierato per il No sullo stesso fronte di Berlusconi e di Grillo. La seconda è la presa d’atto che le forze nate per cambiare, o “rivoltare” l’Italia, come Berlusconi e Forza Italia prima, la Lega Nord poi e oggi i 5Stelle, affermatisi proprio sull’onda delle richieste di cambiamento, si trovano tutte insieme sul fronte del No, tetragone, a difesa dello status quo, irremovibili nella conservazione. È sorprendente come nessuno, dall’estrema sinistra all’estrema destra, da Civati a Bersani, Grillo, Berlusconi, Brunetta, …, senta il minimo disagio dei propri compagni di cordata. A conferma che l’unico obiettivo condiviso e conclamato nel variegato fronte No è di mandare a casa Renzi e il suo governo. E qui viene la terza considerazione. La “personalizzazione” della campagna referendaria, provocata da Renzi e cavalcata dai suoi avversari interni ed esterni al Pd. L’esito del referendum, determinerà certo il futuro del governo, di Renzi stesso, del Pd e di tutte le altre forze politiche. È ovvio e politicamente legittimo che così avvenga, e accadrà sia che vinca il No sia che vinca il Sì. Ma la conseguenza politica non dovrebbe farci dimenticare che il valore primario del voto di domenica non riguarda Renzi né il suo governo, bensì la volontà o meno di cambiare alcune regole per il futuro del Paese. Se vincerà il Sì, alcune regole cambieranno. Se vincerà il No resteranno quelle di oggi e di ieri. Che sappiamo già non essere in grado di garantire stabilità politica.Ma il Sì e il No hanno pari dignità. E il risultato dovrà essere accettato da tutti. Per ripartire il giorno dopo ancora sulla strada delle riforme che, prima o poi, si dovranno comunque fare.

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