Tutti desiderano star bene con se stessi e con gli altri. I “bulli”, in apparenza, sembrano andare nella direzione opposta. Il piacere sta nell’esercitare un potere (più o meno grande e più o meno consapevole) che si esprime attraverso un’aggressione verbale o fisica. Chi viene colpito, verbalmente o fisicamente, porterà il segno per un po’ e dovrà recuperare le ferite, soprattutto a livello interiore. Nessun dubbio quindi sulla portata negativa di questi comportamenti. Ma non può finire qui. Se da un lato, la visione chiara delle conseguenze di un siffatto atteggiamento aiuta, dall’altra non può non coinvolgere anche una responsabilità educativa che consiste nel fornire ai ragazzi possibilità e strumenti diversi, più efficaci, per entrare in relazione. Chi è all’interno di un contesto educativo (famiglia, scuola…) lo può fare. Importante però diventa lo sguardo sul comportamento e non sulla persona. La persona non è “sbagliata”, ma il comportamento sì e questa modalità di approccio, anche se può sembrare irrilevante, fa in realtà la differenza. Si accoglie la persona, ma si è fermi sulla distorsione della sua idea di “potere”, di “forza”. È su quell’equivoco, in quell’ambito, che l’educatore può intervenire. Quando sono le parole a ferire (insulti, derisioni più o meno pesanti) può esserci, da parte di chi le utilizza, un’abitudine (si ripete ciò che si sente) o un fraintendimento (“se dico tutto ciò che penso, sono sincero”, “dopo una litigata si è ancora più amici”…) che porta a non rendersi consapevoli del potere che ha la parola: arma tagliente o strumento di cura, di guarigione. È possibile, in contesti di gruppo, tra pari, ma anche tra un adulto e un ragazzo (genitore/figlio, insegnante/allievo, allenatore/giocatore…) fare esperienza della parola “buona”, che chiarisce in modo rispettoso, che aiuta, incoraggia, sostiene. Talvolta sono le emozioni ad essere abitanti sconosciuti: vivono, capita che spadroneggino, ma non vengono riconosciute. Percepite come una sorta di nube densa, attraversano il corpo e la mente dell’adolescente e semplicemente vengono scaricate su uno o più malcapitati. Anche in questo caso una figura esterna (un educatore in senso lato o un amico non “allineato” al comportamento disfunzionale, ma capace di ascoltare e consigliare) può essere di aiuto, nel dare un nome e un contorno a quella forma che, se trova uno spazio di espressione, diminuisce la sua intensità e la sua pressione. Va riconosciuto che “chi tiene costantemente a freno i propri sentimenti perde la propria vivacità e non offre all’ambiente circostante occasione di reagire”. Diverso è non consentire un comportamento dal reprimerlo. La repressione si accompagna al giudizio, alla stigmatizzazione. Essere fermi, non approvare un comportamento socialmente dannoso, è il punto di partenza e si accompagna alla trasformazione delle modalità relazionali non adeguate, in modo che la situazione diventi un apprendimento. Non va dimenticato che siamo immersi in un contesto sociale in cui il concetto di aggressività è estremamente ambivalente. In molti casi è ritenuto un valore (nell’ambito sportivo ad es.), in altri è sinonimo di violenza. Aggressività e violenza non sono la stessa cosa e se viene riconosciuta la forza propulsiva che sta alla base dell’aggressività, la si può indirizzare verso fini costruttivi.